LAVORARE O EMIGRARE ALL’ESTERO, NON E’ SOLO UNA SCELTA DI PAROLE

Vorrei condividere  una  bella mail che ho ricevuto da Elena, traduttrice, sull’argomento  “esperienze lavorative all’estero”. E’ una riflessione personale, lucida e di grande sensibilità sull’argomento che parte da un chiarimento linguistico. Da traduttrice, mi ritrovo anch’io a dover difendere il carattere distintivo di ogni significato per evitare fraintendimenti  o strumentalizzazioni delle parole. D’altra parte,chi traduce  ha per “deformazione professionale” un rispetto e una curiosità particolari per la lingua e sa bene che una parola non vale l’altra.

” Ultimamente mi colpiscono le lettere di chi consiglia di lasciare l’Italia, parlando quasi esclusivamente degli aspetti piacevoli e/o positivi di “un’esperienza all’estero”. Sono d’accordo sull’utilità di lavorare all’estero, di fare esperienza, di vedere altro. È certamente utile ed entusiasmate. Se lo scegli però. Altrimenti si chiama emigrazione. E questa è ben altra cosa.

Ho vissuto in Germania dal 2001 al 2007, appena finita l’università mi sono trasferita a Berlino, poi a Halle an der Saale, poi a Stralsund e poi a Wiesbaden. Tanti traslochi, tante esperienze faticose ma eccitanti, a volte dolorose ma importanti. Un’esperienza che mi ha cambiato la vita, mi ha arricchita e che rifarei e consiglierei. Amo la Germania che considero la mia seconda patria e amo gli amici che ogni anno ritrovo a Mainz.

La mia esperienza però è molto diversa da quella che molti stanno intraprendendo in questo momento di crisi profonda. La differenza sta nella possibilità di scegliere. Io non me ne sono andata perché non trovavo lavoro in Italia, anzi, quando sono partita avevo appena ricevuto un’offerta che ho preferito rifiutare.

A me pare che si possa parlare di “esperienza all’estero” se a priori esiste anche la possibilità di scegliere di non farla questa esperienza. La mancanza di scelta è una tragedia, è un’umiliazione grandissima, una delle cose peggiori che possa capitare nella vita, in qualsiasi ambito. È altissimo il prezzo da pagare quando “devi” costruirti una nuova vita in un altro Paese, cioè quando devi farti degli amici o magari anche una famiglia in un posto dove mai ci saresti andato se avessi trovato lavoro nel tuo Paese.

Ti prego di non fraintendermi. Credo che conoscere persone di diverse nazionalità e culture sia un’esperienza di vita essenziale, che, se si vuole, cambia, fa crescere, arricchisce. Io sono stata molto fortunata perché ho conosciuto persone molto diverse da me la cui amicizia mi ha cambiata. Ma quando sei costretto ad emigrare devi (non scegli) non solo lavorare in un Paese straniero, ma anche inserirti in una società nuova costruendoti una rete di amicizie e affetti in un Paese che, se non ci fosse la crisi, avresti forse visitato solo come turista. Non è un prezzo da poco.

La società che ti accoglie può essere evoluta, aperta e moderna quanto vuoi ma gli individui che la compongono non sono certo lì ad aspettare noi italiani che abbiamo bisogno di lavoro e di inserirci nel loro tessuto sociale costruendo nuovi legami e relazioni. Per capire cosa intendo basta chiedersi quanti immigrati abbiamo noi come amici. Non credo tanti, anzi più probabilmente nessuno.

Senza integrazione nel Paese che ci ospita conosceremo solo la solitudine esistenziale, quella che sempre si prova all’arrivo, quando nessuno ci conosce, nessuno sa chi siamo né che siamo lì. È in quel momento che inizia il lavoro più duro, cioè quello di costruire le proprie radici là e una nuova identità, di rendere “casa” tutto ciò che ci è estraneo: luoghi, persone, abitudini, odori, colori, cibo, lingua, musica, clima, ecc. Questa condizione è stata per me una sfida esaltante, una di quelle che fa sentire vivi. Io l’ho scelta però.

Inoltre non è scontato che dopo alcuni anni trascorsi fuori dall’Italia si riesca a tornare. Quando si emigra si deve mettere in conto la possibilità di non poter tornare mai più, sia per questioni di età troppo avanzata per i requisiti aziendali italiani, sia per mancanza di opportunità di lavoro. E quando questo succede è terribile, è un esilio.

Con questa lettera non voglio certo sconsigliare nessuno ad andarsene, anzi, ma vorrei solamente porre l’accento sul prezzo altissimo che comporta questa decisione. Credo che anche i risvolti psicologici delle cosiddette “esperienze all’estero” debbano essere presi in considerazione, perché non sono trascurabili, non sono dettagli insignificanti.

Abbandonare il proprio Paese non può essere una ricetta globale, una specie di medicina per qualsiasi paziente. Prima di trapiantarsi all’estero bisognerebbe poter chiedere a sé stessi: chi sono? Va bene anche per me?

Emigrare non può e non dovrebbe essere la soluzione alla crisi e alla disoccupazione. Mi sembra piuttosto una rinuncia a pretendere di meglio nel nostro Paese. Che dolore!

Elena Dal Maso